Lara Croft è stata un mito per tanti di noi, videogiocatori dell’era PlayStation che muovevamo i primi passi nell’avventura tridimensionale grazie alla serie Tomb Raider. Anzi, diciamola tutta: il franchise di Crystal Dynamics ha praticamente fondato un genere, quello dell’avventura a sfondo archeologico appunto, ripreso con mio stupore soltanto anni dopo da un certo Uncharted. Insomma, che dopo film e intere mitologie sul personaggio, possibile che la bella Lara non abbia avuto il successo che davvero meritava?
Possibile che sia diventato cult mediatico prim’ancora che videoludico?
La domanda che mi e vi pongo è più che lecita. Considerate che non tutte le saghe hanno bisogno di un reset brutale come quello del Tomb Raider targato 2013, non tutte arrivano al corto circuito, perdendo completamente il lume della ragione al punto da doversi riaccendere di una nuova fiamma – guardate Final Fantasy, per dirne uno. Considerate anche, però, che quella di Tomb Raider è un’anomalia nell’anomalia: il prodotto, qui, è Lara Croft e non il Tomb Raider di turno che la include. Pensateci: cosa ricordate dei film di Tomb Raider? Angelina Jolie, ammettetelo.
Abbiamo già una risposta, dunque? Ci siamo già fatti l’idea che, mettetele intorno quello che vi pare, purché ci sia la bella, intraprendente e avvenente Lara?
Non necessariamente. Il fatto che persino un colosso come l’archeologa sia venuto meno sotto i colpi della ripetitività, della creatività abbattuta dal successo fino a scadere nel macchiettistico, beh, un fenomeno del genere deve far riflettere… soprattutto chi lo alimenta. E il reboot spesso non basta, se è vero che le vendite di Tomb Raider 2013, chiamiamolo così, non hanno fatto stappare la bottiglia dello spumante buono in Square Enix e che stiamo qui a parlare di una riedizione in chiave next-gen per molti stiracchiata.
Tomb Raider: Definitive Edition nasce con tali premesse, dunque, e si trascina dietro un bel po’ dei problemi che hanno condizionato il coraggioso – ancorché necessario – cambio di rotta portato avanti dai suoi sviluppatori storici. Anzitutto delle premesse narrative che non fanno gridare al miracolo, certo articolandosi con l’evolversi della vicenda ma partite quantomeno in sordina, e forse per la prima volta con la pretesa di dimostrare una certa dimestichezza sia con l’arte che con la potenza grafica. Riflettiamo ancora: quante ambientazioni della serie Tomb Raider sapreste elencarmi in questo preciso istante? Lasciatemi indovinare, nessuna. Naturale, con una star che prende il microfono al primo secondo utile e lo lascia soltanto all’ultimo. Mi è persino capitato di vedere infografiche sul numero di poligoni e sul modellamento del personaggio, differente in ogni release del gioco giusto perché era quella la logica – non cambiamo il gioco ma il personaggio – ed era quella la logica che ha portato un marchio al collasso.
Ma, come dicevo, la rotta è fortunatamente stata invertita. Già su Xbox 360, PlayStation 3 e PC al centro della scena è stata messa l’ormai famosa isola, più che mai protagonista con i suoi tanti risvolti e con quel suo costante incupirsi che a molti ricordava Lost, a me Heart of Darkness. E con una serie di idee mutuate qua e là, come i falò di Dark Souls e l’arrampicata del già citato Uncharted, plasmate concretamente in un ottimo gameplay e impreziosite, anzi contestualizzate da chicche come le tombe-barra-missioni secondarie. E i famigerati “materiali”, a fare da level cap per i vari episodi su cui silenziosamente si appoggia la storia. Insomma, siamo di fronte a un gioco fatto per bene, solido, appagante e stimolante, perché contrariamente a quanto accade in diversi altri titoli non è contemplato perdersi: se sbagli strada, incappi in un’altra avventura e rimani convinto di essere sul percorso principale, per quanto quel rivolo in cui ti stai cimentando è curato nei minimi dettagli!
Un episodio in particolare mi ha lasciato esterrefatto. Non sono un tipo che teme la morte, ma quella altrui mi dà parecchie noie. Siano persone, animali. Le do un certo peso, sempre, e mi è capitato più di una volta di restare con i sensi di colpa per aver compiuto una scelta sbagliata, magari solo tralasciabile o comunque dettata da un bivio videoludico. L’altra sera in The Walking Dead: 400 Days, ad esempio, ho scelto di salvare un personaggio dalle spiccate doti comunicative ma imbroglione piuttosto che un bravo ragazzo, e mi è spiaciuto farlo solo perché ho pensato all’utilità di quel determinato personaggio nell’economia dell’avventura; allo stesso modo, la prima uccisione in Skyrim, per quanto non l’abbia divorato come molti di voi avranno fatto, mi ha lasciato alquanto l’amaro in bocca. In Tomb Raider, la scena del primo daino ucciso a caccia è particolarmente toccante. L’animale respira ancora quando viene abbattuto, la cosa è ben visibile, e Lara deve dare un ultimo colpo di grazia prima di poterlo rendere commestibile. La scena procede (ovviamente?) in maniera non interattiva e perdipiù un “perdonami” assolve la protagonista, cui è la natura stessa ad imporre di uccidere una parte di sé.
Non penso di dire una fesseria se do un pezzettino del merito di tutto questo pathos al comparto grafico tirato a lucido nella Definitive Edition: il daino bagnato da una pioggia torrenziale respira affannosamente e l’occhio del giocatore viene quasi spinto su questo dettaglio. Un dettaglio non da poco, perché serve a definire il gioco e a contestualizzarlo anche da un punto di vista narrativo, al di là delle (buone) meccaniche del gameplay. Entra in gioco, scusate la ripetizione, la trasmissione di un’emozione, il feeling che si crea tra l’utente e il suo alter ego digitale. Penso che il coinvolgimento emotivo sia la vera next-gen. Prima che questo si crei, nelle battute iniziali pure nel titolo di Crystal Dynamics, è come stare in vacanza, non si sente il trasporto, non ci si sente parte dell’azione ma solo suoi succubi. È alla morte del daino, insomma, che ci si toglie gli infradito per vestire i più consoni anfibi.
Liquiderei con una battuta la diatriba dei 30 fotogrammi al secondo registrati su Xbox One in luogo dei “60” di PlayStation 4: ai tempi del primo BioShock, io ero tra quelli che optavano per il frame-rate bloccato. Oggi sono tra quelli che chiede conto su cose molto più importanti, come, ad esempio, l’audio iper-compresso e pasticciato, reo di sciupare l’ottima interpretazione della Lara italiana.
Cavilli a parte, Tomb Raider: Definitive Edition è davvero l’esperienza definitiva sull’isola che ha ingabbiato la giovane e sempre fascinosa archeologa. Ve la suggerisco caldamente e, se già vi siete portati a casa l’uscita originale, aspettate tranquillamente un calo di prezzo: ma non perdetevelo.