Durante la giornata di ieri, condita da un’insolita mancanza di voglia di giocare, sono stato rapito dalla curiosità di provare DmC: Devil May Cry, disponibile da poche ore in versione demo sul Marketplace di Xbox Live.
Strano, molto strano.
Negli anni passati ho sempre cercato di apprezzare al massimo e giocare i vari titoli della serie made in Capcom: mi piaceva lo stile e la tamarraggine del potere affettare i nemici con una spada per poi sparar loro dall’alto o dal basso, ma non sono mai riuscito a completarne uno, complici la mia suscettibilità e il mio titolo di campione mondiale dei “cagasotto” (siete anche autorizzati a prendermi in giro).
Provai il primo, diedi uno sguardo al secondo e al terzo, il quarto esagerando l’ho scartato. Il nuovo DmC invece mi ispira fiducia e la prova con mano mi ha non a caso restituito un feedback superiore alle aspettative. Ed è da qui che nasce una riflessione sull’industria videoludica giapponese: su quanto stia cercando di rincorrere le produzioni occidentali, addirittura assoldando team esterni e stranieri in vista di nuove iterazioni di franchise blasonati, per arrivare a capire che il suo punto forte risiede in quella spiccata sensazione di jappo. Se poi quel feeling proviene da un prodotto sviluppato in Inghilterra, beh, allora qualcosa non quadra.
Da qualche anno a questa parte, l’industria videoludica nipponica non va più come una volta e soprattutto non riesce ad avere il successo dei bei tempi in Occidente. Un grattacapo non indifferente, visto che si tratta del paese da dove tutto è cominciato. Si è persino arrivati a dichiarazioni scottanti come quelle di Keiji Inafune, uno dei luminari dell’industry che ha dato vita a serie come Mega Man, alla GDC di quest’anno. “L’industria giapponese è diventata davvero di idee ristrette” diceva all’alba di un Socom mascherato da Resident Evil: Operation Raccoon City by Slant Six Games e di due Dead Rising firmati dalla stessa Blue Castle Games che ha affossato una delle IP più originali di questa generazione.
A Ninja Theory va l’onere di dare un senso alla terza parte del new deal capcomiano: riavviare la saga di Devil May Cry con DmC. Il curriculum dello studio britannico non faceva ben sperare, anzi: dopo un trascurabilissimo Heavenly Sword per PlayStation 3 e un poco apprezzato Enslaved (a me invece è piaciuto), la strada del reboot dell’action giapponese non solo è un modo per Capcom di mettersi in gioco e fare cassa, ma anche una rivincita per NT – una rivincita che, almeno dal provato della demo e a giudicare i vari hands on sparsi per la rete, sembra stia prendendo forma.
La formula e il feeling di DmC sono sempre gli stessi: siamo di fronte ad un action in terza persona con forte focus sulla stilosità delle proprie azioni, con tanto di valutazione delle combo con termini cool. Le uniche differenze col passato risiedono nel design un po’ più occidentale, un art direction giovanile e un linguaggio colorito. Per il resto è tutto lì dove deve essere, jappo quanto basta per capire che si tratta di un altro Devil May Cry pronto a voler soddisfare i fan con gameplay e citazioni dalla serie principale. E anche se l’aspetto emo (che tanto emo non è) ci ha spiazzato tutti all’annuncio, gli sviluppatori sapevano cosa avevano tra le mani e fremevano dalla voglia di dimostrarci che il loro prodotto non è scadente come pensavamo.
E allora cosa dobbiamo consigliare alla morente (secondo alcuni) industria giapponese, sempre alla ricerca di innovazione e di rinascita, se da uno studio UK-based arriva il buon reboot di un’IP che ha fatto la gloria della scorsa gen?
Bisogna tornare alle origini, intestardirsi su quello che è da sempre stato il marchio di fabbrica del Sol Levante e continuare a sfornare giochi. Prima o poi la creatività darà i suoi frutti.
DmC: Devil May Cry sarà disponibile dal 15 gennaio per PC, PS3 e Xbox 360.