Si fa un gran parlare della creatività nel mondo dei videogiochi, di quello che ancora possiamo vedere nei ranghi del “nuovo” su console a fine generazione. Spesso e volentieri non si prova nemmeno ad innovare, altrettanto solitamente vediamo snaturare serie storiche secondo i dettami del genere più popolare – mi viene da pensare ai casi emblematici di BioWare, quello che sarà di Dead Space 3, ma ce ne sarebbero tanti altri da citare. Il vantaggio delle nuove IP è questo: non ci si fa delle aspettative in base a ciò che si è visto in passato, proprio perché nulla si è visto, in passato.
Che altri vantaggi, poi? Pochi altri, specie nell’ottica del publisher che deve massimizzare i profitti. Ecco perché Spec Ops: The Line ha un comparto multiplayer ed ecco perché il titolo Yager Entertainment viene venduto per ciò che non è, vale a dire un Gears of War con ambientazione originale. Che peccato: il tono della narrazione è inusualmente drammatico, la cooperazione coi compagni funziona in modo inatteso, i dialoghi stupiscono per la loro scioltezza anche in Italiano, l’ambientazione è… originale, come dicevo quassù. Non è un pianeta identico ma diverso dalla Terra, non è una qualche città che fa tanto chic distruggere: è una Dubai messa a ferro e fuoco da una tempesta di sabbia. Questo sì che è figo.
Se volete sciuparlo, mettetelo al servizio di meccaniche à la Gears of War e il gioco è fatto. Non per far dispetto al titolo Epic, che tanto ha dato a questa industry (anche se in secondo luogo: il virus dei TPS porta la firma di Resident Evil 4), ma accostarsi a lui è un errore gravissimo, innanzitutto perché la maestria del team di Bleszinski & co. sul motore creato da loro stessi è inarrivabile e, in secundis, perché un sistema di coperture così funzionale non l’ho visto altrove. Né nella demo di Resident Evil 6 – paradossale, vero? – né in nessun’altra produzione contemporanea, The Line compreso. Un cover system che funziona una volta sì e dieci no, perché quando si è in corsa a volte ci si può incollare ai ripari e a volte no, rende tutto più complicato, meno ordinario. Frustrante e pertanto poco realistico, complice della rottura della “magia” di cui spesso parliamo. Spec Ops non è magico.
Altro titolo creativo, Lollipop Chainsaw. Prima domanda: è “magico”? Probabilmente no. Diversamente da quanto visto in Shadow of the Damned, l’eclettismo di Suda51 si specchia in limiti tecnici e ostacoli volutamente posti in una struttura che delude per quant’è chiusa. Mi aspettavo qualcosa di più aperto, di più a disposizione – al di là della trama e delle intenzioni di story-driven – del giocatore e non il contrario. In LP ci si diverte per i primi minuti del prologo, perché, diciamocelo, segare zombie con una ragazzina formosa piace a tutti; poi subentra la monotonia dell’azione, a cui si aggiunge davvero poco altro nelle fasi successive. Il negozio in cui acquistare aggiornamenti, per quanto strambi, non esce da quelle formule già collaudate, già viste e riviste, che hanno caratterizzato il videogioco 2.0, quello in HD degli ultimi anni. Il discorso, allora, è questo: quando va bene, si creano storie e ambientazioni originali ma nulla più.
Ho come l’impressione che serva una svolta concreta nel mondo dei videogiochi, ma guardandomi attorno non capisco da dove potrebbe arrivare. Dopo un periodo di grande fecondità, persino gli indie iniziano a specchiarsi nella loro bellezza intrinseca e a sfornare titoli che puzzano di vecchio, e dubito che una nuova potenza tecnica – le console che verranno annunciate l’anno prossimo – rappresentino la rottura necessaria. Per questo guardo con interesse al, chiamiamolo così, “esperimento” del Wii U: per capire se l’innovazione deve arrivare dai produttori di hardware o se gli sviluppatori hanno la capacità di sfuggire alle meccaniche che tanto successo hanno dato loro.
Al di là dei commenti fin troppo generici e fugaci in cui mi sono perso, non intendo bocciare Spec Ops: The Line e Lollipop Chainsaw. Sono giochi che vanno in un certo senso giustificati, vanno compresi e non condannati, sorprendentemente più il primo che il secondo. Un team come Yager, talentuoso e l’ha dimostrato, ha bisogno di poter esprimere la sua personalità senza troppi condizionamenti – spero riescano a farlo. Non ho particolari timori per Suda51 e il suo team giapponese, che devono soltanto continuare a creare le esperienze bislacche degli ultimi tempi e liberarsi delle manette che lo tengono attaccato al videogioco orientale.
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Filippo Tozzi