In WWE ’12 persino i menù danno l’idea della rivoluzione che gli sviluppatori di Yuke’s hanno voluto intraprendere: una rivoluzione all’insegna del minimalismo, con un quadro di comandi e mosse davvero scarno e intuitivo, e più in generale un minor numero di variabili a complicare un gameplay arrivato al suo apice nell’edizione 2008.
Se la parola d’ordine è minimalismo, ne consegue un approccio seriamente vicino alla realtà dello sport entertainment americano: le finisher vengono eseguite senza troppi orpelli e complimenti, le mosse speciali fanno da preludio, sì, ma possono anch’esse condurre agilmente alla vittoria. Come ogni reboot che si rispetti, dunque, WWE ’12 scava nei ricordi e pesca una semplicità persa nel mare di controlli intricati e meccaniche, divise tra abilità e caratterizzazioni poco riuscite, e che per lungo tempo è mancata. Il risultato è un impatto di prim’ordine: esaltante per la rapidità e l’immediatezza dell’azione, per il realismo visivo che da sempre è pregio della software house nipponica al servizio di THQ, ma soprattutto, devo essere sincero, per le mosse eseguibili in men che non si dica e che danno l’impressione di poter chiudere il match a proprio piacimento. Un’impressione di onnipotenza che fa piacere, specie quando controlli il John Cena di turno che, francamente, deve sbrigare la pratica di un dilettante al suo cospetto in tempi brevi.
Ma, superato l’impatto di cui sopra, emergono i limiti del ritorno alle origini. WWE ’12 è troppo semplice: sembra quasi di giocare a WWE All Stars – che si proponeva appunto di arrivare a una giocabilità da arcade. Intendiamoci: che alla base della resurrezione del brand possa esserci un’impronta arcade potrebbe essere lecito, ma dubito fossero quelle le intenzioni. Dubito che, in fondo, i developer volessero farci giungere alla finisher, e dunque alla presumibile chiusura dell’incontro, con un paio di pugni ben assestati e qualche contromossa.
Mi sono posto subito una domanda: perché non posso più andare, col mio bel personaggio, nell’area transennata tra il pubblico e il ring? Non me ne importa più di tanto (o forse sì: in Smackdown VS Raw 2007 era una figata prendersi a legnate in quello spicchio di arena), ma una risposta a tale quesito potrebbe davvero darci la misura di come sia stato trattato l’argomento “reboot”. Se reboot vuol dire tagliare indiscriminatamente ogni idea avuta negli anni passati, come le mosse da assegnare ai protagonisti in base alla loro attitudine o all’ingegnoso sistema delle mosse in movimento – con la pressione dell’analogico destro, ricordate? -, no, cari miei, io proprio non ci sto.
Non ci sto perché al di là del divertimento immediato e subdolo delle prime sessioni, ahimè, non rimane molto. Le modalità offline non sono in grado di soddisfare gli appetiti più esigenti (come il mio, lo riconosco, questa serie la seguo da anni), proprio perché sottostanno alla rivoluzione voluta da Yuke’s. Sono semplici, troppo semplici, e senza un obiettivo di fondo. Si combatte match dopo match, senza particolari deviazioni dalla linearità che un arcade richiederebbe, in Road to Wrestlemania (l’inizio è abbastanza illusorio) e soprattutto in WWE Universe, una sorta di modalità General Manager incrociata con mazzate confusionarie e alla cieca. Non ci siamo, o meglio: WWE ’12 può essere l’inizio di un nuovo franchise, con l’arricchimento doverosissimo che dovrà però seguire nelle prossime iterazioni.
Fino ad allora, lettori ed amanti o malinconici del wrestling, suggerisco di concentrare la vostra attenzione su altre produzioni del genere.
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