Quando si parla di indie, spesso si tralascia il significato di questa parolina inglese che fa tanto chic in diversi campi dell’intrattenimento. I musicisti, i registi, gli sviluppatori che si pongono sotto l’ala protettiva di questa etichetta sono indipendenti. Non hanno alcun legame, più o meno letteralmente, non solo con le grandi major dell’industria culturale – nel nostro caso, editori come EA e Activision – ma anche, forse soprattutto con le imposizioni che da tale industria sono derivate. Imposizioni che, ovviamente, non si sono palesate sotto la forma della coercizione ma sotto quella assai più devastante della naturalizzazione di uno status quo spesso e volentieri mediocre.
È con questo concetto ben in mente che va analizzata, a parer mio, l’ondata di titoli liberi che hanno invaso il mercato negli ultimi anni. Titoli diversi più che innovativi, perché, a buttarci un occhio attento, nessuno di essi ha reinventato la ruota. Fez, Braid, Castle Crashers, persino il fenomenale Minecraft – forte di una veste grafica vintage che ha fatto (di nuovo) tendenza – si poggiano su gameplay collaudati, su schemi noti che vengono talvolta sovvertiti per suscitare stupore nel grande pubblico. Terraria, poi, si poggia su un ramo del genere platform, del quale abbatte la struttura a livelli per riprendere la libertà esplorata nel voxel di Markus “Notch” Persson.
Perché è così importante il titolo di Re-Logic nella disamina di Darkout, il nuovo indie bidimensionale firmato Allgraf? Per qualcosa in più del semplice feeling visivo. Intendiamoci: questo è un gioco che prende più di uno spunto da Terraria e, anzi, ne eredita alcune meccaniche fondamentali, quali la creazione del mondo e del personaggio che avvengono tramite pochissime scelte mirate ad inizio partita. Il primo impatto è allo stesso modo simile per le due produzioni: prospettiva laterale, scorrimento più o meno libero (in Darkout è infatti possibile far seguire i movimenti del mouse dalla camera: spiazzante, a tratti) e superfici completamente plasmabili dal giocatore. Questo vuol dire che, qualunque sia lo strumento di vostra preferenza, potrete rompere i blocchetti che compongono lo scenario e modificare quest’ultimo nel modo che più vi aggrada, tendenzialmente, soprattutto per i primi tempi, in modo da guadagnarvi un riparo in vista della notte.
La notte, come d’altronde nel seminale Minecraft, è il perno attorno al quale si sviluppa ogni vicenda. È quando calano le tenebre che il gioco inizia a farsi duro: creature di ogni specie e pericolosità vagano per le ambientazioni in cerca di prede facili, e farsi trovare impreparati potrebbe significare morte immediata. L’alternanza col giorno sblocca una componente strategica interessante, “a causa” della quale organizzare e gestire le proprie risorse, una volta terminata la fase emergenziale che costringe a costruirsi una casa.
Ma, alla base di Darkout, vigono delle differenze sostanziali rispetto ai titoli che l’hanno preceduto. Principalmente due. La prima, fondamentale e ludica, rientra nel discorso della learning curve: troppo punitiva per un titolo che si presenta – come se le apparenze non ingannassero – assai semplice. E non parlo di mera difficoltà: è confrontarsi con i comandi ad essere complicato, altroché. Per le prime ore vi troverete più di una volta a chiedervi come si esegua questa o quella azione, e a interrogarvi sull’utilità di un tutorial erroneamente minimalista quando vi affiderete a combinazioni del tutto casuali per raggiungere i vostri scopi. Ci sta che, al pari di un Terraria (tanto per cambiare nome), sia necessario navigare in rete per scoprire i “segreti” e i trucchi celati dagli sviluppatori – anzi, in molti casi è quello il bello – ma la giocabilità dev’essere lì, duttile, a permetterlo.
Il secondo punto di disgiunzione rispetto alla “concorrenza” è il comparto grafico: come potete vedere dalle immagini che ho scelto per questo numero di IndieWay, Darkout ha una direzione artistica molto affascinante, un passo nella luce e un altro nell’ombra, un buon carisma e tutte le carte in tavola per ammaliare l’osservatore. Il problema sta allora nella concretizzazione di queste qualità, nell’aspetto generalmente scialbo che balza sullo schermo alla loro realizzazione. Sembra un passo indietro se confrontato all’era dell’alta definizione e, cosa da tenere imprescindibilmente in considerazione nel momento in cui si voglia rapportare il nostro ad altri esponenti del genere, tale passo non è voluto.
Nonostante l’assenza del multiplayer, ancora in via di sviluppo, il prezzo di €11,99 al quale potete trovare Darkout da oggi su Steam (per PC Windows) è onesto. Probabilmente non si poteva chiedere di meno ad Allgraf ma è chiaro che, in tempo di saldi e con i titoli che hanno ispirato questa produzione sul mercato a cifre irrisorie, il consumatore accorto deve pensarci su due volte. La prima per arrivare alla strada dell’acquisto, che passa per l’aver provato o sviscerato Terraria: la conoscenza del 2D di Re-Logic è fondamentale per avere un impatto meno duro con il gioco e comprenderne sia i pregi che i difetti.
La seconda, forse la meno divertente di tutte, conduce sul sentiero dell’indifferenza premeditata.