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I videogiochi possono intristire?

di • 5 novembre 2013 • Videogames, inc.Commenti (0)2275

Non sono il primo a dire che i videogiochi, come ogni altro medium, possono esprimere un set ben definito di emozioni.

In un’intervista piuttosto recente, Jenova Chen, il creatore (tra gli altri) di Journey, lamentava proprio la ristretta di questo set parlando dei videogiochi moderni, prodotti costellati di sparatutto adrenalinici che, oltre a non saccheggiare come potrebbero l’ampia gamma di sentimenti di cui dispone l’uomo, ricorrono ad una serie di cliché ciclici, banali e trattati in maniera superficiali.

Pochissimi, a prescindere dalla loro “militanza” videoludica, potrebbero dirsi in disaccordo e d’altra parte sembra davvero che l’industria, grazie anche ad una ritrovata verve visiva, sostenuta dalla potenza dei PC più performanti e dalle console di ultima generazione, stia cercando di invertire la tendenza.

Una sorta di maturazione, questa, che si presenta molto simile a quella percorsa dagli altri media – il cinema, prima semplice mezzo d’intrattenimento e poi veicolo di autorialità; la radio, in origine strumento di propaganda, in tempi meno recenti elitè comunicativa e solo infine veicolo di informazione a tutto campo – e che ha portato alla ricerca del bello, dell’estasiante, del confondente, dello stunning, come dicono gli anglofoni in un’unica parola, in senso prevalentemente positivo.

Ma se a queste sensazioni di piacevolezza sottraiamo il bello e aggiungiamo il brutto? Se anziché rallegrare lasciando il ricordo pieno, vivace e coinvolgente cui siamo abituati, i videogiochi volessero d’un tratto rattristare non tanto con azioni sgradevoli (ne sono pieni i GTA di misfatti firmati dagli utenti) quanto con fatti fruiti passivamente, capaci di lasciare l’amaro in bocca e il desiderio di allontanarsi da quell’esperienza?

Polarizzante come di consueto, il nuovo titolo di Quantic Dream mi ha posto di fronte a questa domanda più e più volte nelle prime ore di gioco. Tanto da spingermi a parlarvene qui su XboxWay, sebbene Beyond: Due Anime sia (ahinoi) un’esclusiva PS3.

A memoria, non ricordo giochi che mi abbiano costretto a spegnere la console per avermi dato una duratura sensazione di angoscia e disagio. Mi è successo di avere il fiatone con The Last of Us, per l’adrenalina e l’imposizione di essere furtivi per non lasciarci le penne; mi è capitato di riflettere e dispiacermi con le scelte di The Walking Dead, The Wolf Among Us o, pescando più a fondo, il primo Mass Effect. Ma mai mi sono ritrovato a lasciare un gioco per tristezza e depressione contagiosa – immagino che per questo vadano fatti i complimenti a David Cage e al suo team.

In alcune scene di Beyond, infatti, ho assistito al ribaltamento delle logiche dello stupore finora imposte, venute a galla grazie al fenomeno degli indie e alla corrente che si oppone alle meccaniche dei blockbuster. Grafica spettacolarmente realistica e comportamenti inspiegabilmente crudeli sono i primi ingredienti a far ‘storcere il naso’. In uno spezzone del gioco, una piccola Jodie Holmes (Ellen Page!) viene definita “mostro” dal padre, termine che genera una discussione con la madre ma che lascia il segno perché viene combattuto in maniera molto flebile – d’altra parte, Jodie è un mostro, nonostante il suo aspetto. In un’altra sequenza molto celebre, la protagonista si vede costretta alla vita da senzatetto, salvata da un altruista clochard dopo che aveva perso i sensi in strada. Nel mentre, il giocatore può tentare il suicidio in diversi modi e il fatto che il giocatore ci pensi, il fatto che io abbia collegato un coltello piantato a terra all’arma che avrebbe ‘liberato’ Jodie o uno strapiombo al suo ultimo salto… beh, fa riflettere per quant’è raro.

A voler ridurre il tutto ad una semplice ‘empatia’, si darebbe comunque un riconoscimento grandissimo ai videogiochi, perché li si direbbe in grado di generare dei rapporti tra un personaggio fittizio – la macchina, un suo rappresentante – e un giocatore chiamato a gestirne le azioni o i pensieri. E viceversa.

Chiamatela come volete ma io ci credo. Credo alla possibilità di oleare questi ingranaggi appena costruiti, all’ampliamento del set di emozioni di cui sopra e al loro completo rovesciamento. Alla bontà, infine, della strada perfettibile di Cage.

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