Una delle mode degli ultimi anni vede i giocatori “fighi” impazzire per qualsiasi cosa provenga dal sottobosco di sviluppatori che si autodefiniscono indie. Ingenuamente, questi idealisti pensano che lontano dalla major i giovani designer e coder possano esprimere tutta la loro creatività, fondendo, una volta per tutte, l’arte coi videogiochi.
Fino a poco tempo fa, anche io ero tra le schiere di questi sciocchi idealisti e mi vantavo di aver provato molti dei giochi indie più famosi e di conoscere alcuni dei programmatori più in voga. In realtà ero un idiota. All’interno dell’Humble Indie Bundle 7 ho trovato anche un codice Steam per scaricare Indie Game: The Movie, vero e proprio film denuncia che ha immediatamente levato ogni alone di fascino, mistero ed epicità a tutto questo mondo.
Il film di Lisanne Pajot e James Swirsky, oltre ad essere un documentario estremamente ben girato, scritto e montato – non vi preoccupate, non lo dico io, ma gli esperti del Sundance Film Festival e del New York Times – racconta l’impensabile storia che si nasconde dietro tre dei più venduti e amati giochi pubblicati su Xbox Live Arcade. Ovviamente stiamo parlando di prodotti sviluppati non da un team di professionisti, ma da quattro ragazzi comuni – definirli normali mi pare azzardato – alle prese con il loro sogno. Si tratta di tre titoli di piattaforme estremamente diversi tra di loro: Braid di Jonathan Blow è l’onirico viaggio in un mondo nel quale è possibile riavvolgere il tempo; Super Meat Boy, del Team Meat, è l’esaltazione del level design e della sfida, mentre FEZ di Phil Fish mescola uno stile grafico unico con elementi puzzle in tre dimensioni.
Il genere ludico e la piattaforma di riferimento (Xbox 360) non sono le uniche cose in comune tra queste tre storie. Il filo conduttore è infatti rappresentato dalle tante difficoltà che sorgono nel dover seguire tutte le fasi di produzione da soli, senza una struttura alle spalle, dall’enorme pressione che si trovano a subire questi ragazzi, schiacciati da pressanti deadline, e dal non avere nessuna rete economica e sociale a proteggerli dal loro possibile fallimento. Soprattutto quando si accorgono di aver fatto il passo troppo più lungo della gamba: i loro progetti sono passati velocemente dall’essere un divertente hobby al diventare l’ossessione che li accompagna quotidianamente. Per anni.
Fortunatamente un altro punto in comune è che, dopo tutte queste fatiche, questi quattro ragazzi ce la faranno a coronare il loro sogno. Ma mi viene da pensare ai tanti che invece non hanno avuto la stessa fortuna.
Il film, costruito come una sorta di documentario/inchiesta alla Michael Moore, racconta queste commoventi parabole, mettendo in luce l’alienazione e la crudeltà che in realtà si nascondono dietro il divertente e coloratissimo mondo dei videogiochi. E di come molto spesso la gente, protetta da internet, possa essere incredibilmente feroce.
Sono però i personaggi al centro dell’opera, non tanto i giochi. E sfortunatamente per loro, per quanto le loro opere siano colorate e fantasiose, potrebbero essere definiti con una parola: creepy. O magari è così che appaiono dopo mesi di frustrazioni, calci nei denti e duro lavoro.
Se incontrassi Jonathan Blow per strada, infatti, mi si accapponerebbe la pelle. Posato e inespressivo, con uno sguardo glaciale, il geniale creatore di Braid sembra la versione nerd di Hannibal Lecter. Dopo l’uscita del suo gioco ha occupato i forum di mezza America rispondendo quasi in tempo reale a tutte le critiche e perplessità che emergevano negli utenti. Tanto da aver generato vignette e scherzi a profusione che ovviamente hanno accentuato ancora di più la sua avversione al mondo. Inoltre è entrato in depressione perché tutti i 9 e i 10 che la stampa affibbiava a Braid arrivavano non per il motivo che lui voleva (!!).
Tommy Refenes ed Edmund McMillen sono due amici che vivono in due differenti stati degli USA, che lavorano allo stesso progetto: Super Meat Boy. Dopo che il gioco divenne un vero e proprio cult tra i software in Flash, i due furono contattati da Microsoft per farne una versione XBLA. Edmund, sposato con una ragazza amante dei gatti, è introverso e creativo, mentre Tommy, che vive nella casa costruita dai suoi genitori, è decisamente sociopatico, disprezza qualsiasi cosa non sia il suo videogioco, non ha amici e sembra sempre pronto ad esplodere.
Phil Fish fu accolto sulla scena come una vera e propria rockstar. Il prototipo di FEZ raccolse, sin dalla sua prima presentazione, enormi consensi. Senza nemmeno essere entrato in pre-produzione nel 2007 si generò un immenso hype intorno all’opera prima di Fish. Una serie incredibile di sfortunate coincidenze e l’essere entrato in una spirale di perfezionismo hanno portato il giovane Phil sull’orlo del baratro – drammatica la sua frase ‘se non porto a termine il gioco mi uccido” -. Fortunatamente, dopo cinque anni di lavoro, le cose per lui sembrano essersi sistemate e all’inizio di quest’anno FEZ ha raggiunto lo store digitale Microsoft. Non ha però perso l’abitudine ad aprire bocca e cercare rogne.
Indie Game: The Movie è quindi un interessante affresco di questo sottobosco, da una parte ancora sconosciuto dalla massa e dall’altra mitizzato da buona parte degli opinion leader del settore. Rimane un buon modo per scoprire come sono stati sviluppati alcuni dei giochi Xbox Live Arcade più originali e amati degli scorsi anni, e per cercare di comprendere con maggiore maturità questa affascinante industria. Ma soprattutto rimane un bel film, in grado di inumidire gli occhi anche di coloro che sono completamente disinteressati allo sviluppo di giochini e affini.
O anche a chi, come il sottoscritto, nonostante il duro lavoro e i sacrifici, ha visto infrangersi diversi sogni. E i coltelli di presunti amici spuntare dalla schiena.
Ma siamo sempre alla ricerca del finale buono.