Con colpevole ritardo mi sono impossessato di una copia di Dishonored e del tempo necessario per provarlo. Avevo atteso a lungo il lancio di questo gioco, seguito passo passo il suo sviluppo e la nascita di Dunwall, la City 17 vittoriana, che avrebbe fatto sentire a casa i fan di Half-Life. Quelli che, a dirla tutta, sentivano la mancanza non solo di una storia ma anche di un ambiente credibile in cui questa potesse nascere, fiorire e appassire con loro. L’obiettivo, l’avete letto nella nostra Opinione, è stato centrato e ad oggi Bethesda può parlare del titolo di Arkane Studios come capostipite di una nuova serie. Ma cos’è che emerge con maggiore forza da un secondo playthrough nella nuova IP dei creatori di The Elder Scrolls?
Sono evidenti, e per molti lo erano anche al primo giro, delle discrepanze rispetto al sogno iniziale. Ammesso che sia viva e credibile come promesso, ma su questo non voglio pronunciarmi poiché ho giocato relativamente poco, la città di Dunwall cela in malo modo un paio di segreti che vale la pena portare a galla. Non sto per dire nulla di originale, sappiatelo, la verità è ormai sotto gli occhi di tanti.
A dieci minuti dieci di gioco, il mio primo pensiero è stato: “chissà cos’avrà detto Levine”. Il Levine in questione è il geniale Ken di Irrational Games, padre, tra gli altri, di BioShock. Perché proprio lui? Perché Dishonored è la copia spudorata di BioShock 1 e 2, e anzi fossi nei panni dell’eclettico designer mi arrabbierei non poco dal momento che questa “somiglianza” potrebbe sciupare l’hype per Infinite. Non vorrei andarci giù troppo duro perché, sì, stiamo parlando di due grandi giochi che tutti e dico tutti dovrebbero provare. Ma la cosa va sottolineata perché non siamo nel campo dell’ispirazione né in quello del tributo: semplicemente gli sviluppatori hanno scelto di affidarsi a un feeling – interfaccia, sistema di upgrade, raccolta degli oggetti… potrei andare avanti delle ore – già noto a loro e ai più, rischiando ma non troppo sulla strada della nuova IP. Arkane si è adagiata sull’idea della base solida ed ha finito per restarci stecchita. Colgo l’occasione per fare i complimenti ai pochi colleghi che si sono resi conto dell’”inganno” in tempo per le loro recensioni da day one: ammetto che un’osservazione del genere richiede lungimiranza o un po’ di tempo per riflettere, e solitamente ai recensori italiani mancano entrambi.
Altro nome cui ho rivolto un pensierino è stato quello di Peter Molyneux. Il grande ex-Lionhead si starà mangiando le mani vedendo la forza del first-person di Arkane Studios, di spettacolare atmosfera vittoriana, appena esplorata in Fable II, e di scelte morali influenti come mai era riuscito a plasmarle nei suoi RPG. Era troppo facile rifugiarsi nel macchiettistico, con le corna da diavoletto al cattivo o l’aureola al buono, e Molyneux lo sapeva – era un limite, chiamiamola direzione, di quelle produzioni solo Xbox. Un limite che Dishonored affronta con notevole maturità e supera in pieno, con finali alternativi che derivano da scelte non troppo nette; da bivi che, ok, sarete presto in grado di associare alle relative conseguenze (The Witcher II rimane imbattuto da questo punto di vista) ma che sono paurosamente articolati e causano differenze ben più sottili, realistiche, nell’approccio al mondo del gioco: uccidi troppo, ti ritrovi con la gente che ti teme e ti attacca appena possibile. Se non lo fai buon per te, perché potrai sfruttare il silenzio e l’ombra per agire dietro le quinte.
Infine, l’ultimo nome che mi è venuto in mente è quello di Assassin’s Creed. Immaginerete il perché: in entrambi i titoli, infatti, i protagonisti sono degli assassini e le loro uccisioni si susseguono quasi ininterrotte per l’arco della storia. La differenza è che nella serie Ubisoft bisogna passare per una serie di missioni “secondarie” prima di arrivare all’obiettivo vero e proprio della quest, e una volta arrivatici si potrà portare a termine l’operazione secondo i dettami unici della CPU. Dishonored è diverso: i bivi ci saranno sempre e comunque, ma sono stati qui inseriti in un contesto sopportabile e, oltre a fare da preambolo all’assassinio vero e proprio, lo “accompagnano” quasi per farti cambiare idea, optare per una soluzione silenziosa o magari alternativa. In questi frangenti il gioco dimostra una profondità inquietante.
Il mio secondo verdetto è dunque positivo per la nuova IP di Bethesda e Arkane Studios. Se anche fosse mediocre, potremmo consolarci pensando al lancio di una proprietà inedita, che al giorno d’oggi è decisamente merce rara. Ma Dishonored mediocre non lo è: un pizzico di personalità in più e non avrebbe faticato per portarsi a casa un paio di 10. Sarà per la prossima?