Journey

Esperienze “uniche e fantastiche”: dov’è che l’industria dei videogiochi ha fallito?

di • 16 novembre 2012 • Videogames, inc.Commenti (0)1885

“Quando apre bocca questo è una catastrofe” è uno dei commenti che si susseguono ciclicamente sui forum di ogni sito videoludico. “Questo” è Peter Molyneux, eclettico designer di Fable, Black & White e Curiosity: What’s Inside the Box, fondatore di piccoli giganti come Lionhead e 22Cans.

Il motivo di tanto astio da parte dei consumatori è lo stesso che tanto ci fa amare questo personaggio a tutto tondo dell’industry: il vecchio Peter parla, forse straparla, tutti i santi giorni e non ci fa mai mancare un titolo o una notizia. Un approfondimento, come nel nostro caso.

La dichiarazione del giorno è la seguente.

“Negli anni ’80 sognavamo che questa industria potesse dare vita ad un’altra vera forma d’intrattenimento. Sapete cosa? In un certo senso, abbiamo fallito. Abbiamo fallito perché abbiamo fatto delle esperienze fantastiche ma solo per un numero molto ridotto di persone. Ora l’opportunità che abbiamo è di realizzare fantastiche, incredibili, uniche esperienze che, usando la tecnologia a nostra disposizione, raggiungano milioni di persone”.

A dispetto degli insulti e delle (fantastiche) prese in giro, le parole di Molyneux hanno un senso. Lasciamo un attimo da parte il pubblico di massa, che ci interessa in maniera molto relativa. A tal punto il senso sta nell’autentico fallimento di un sistema di business, di produzione e di vendita, che negli ultimi anni sta inesorabilmente collassando come dimostrano gli affanni di THQ. Davvero credete che il sogno fossero titoli poi definiti triple-A e DLC magari già su disco? Certo che no, certo che non era quello. Forse l’unica scintilla sopravvissuta di quel folle fantasticare degli anni ’80 è l’emancipazione economia di un settore, che è indubbiamente riuscita e ha portato l’industria dei videogiochi vicinissimo a quella cinematografica. Ma poi cos’altro?

“Esperienze fantastiche, incredibili, uniche”. Definireste così Call of Duty: Black Ops II, senz’offesa per lo shooter di Activision che ammetto di stare aspettando anch’io con una certa ansia? O anche il pur spettacolare Need for Speed: Most Wanted. Lo chiamereste “fantastico”?

Peter Molyneux e un insensato spazio bianco

Non lo fareste, o almeno non dovreste farlo.

Dov’è finito lo stupore? Dov’è finita la meraviglia? Dov’è finita l’incredulità? Non siamo più ragazzi, è vero, la vita ci ha fatto dono dell’esperienza e questa ci impedisce talvolta di spalancare la bocca o urlare “wow!”; ma, oggettivamente, della stessa esperienza non hanno fatto tesoro i protagonisti dell’industry che, anzi, la sfruttano per carpire i segreti del successo commerciale. Comprensibilissimo.

Ma è quando vedi che certi giochi riescono ad unire gli incassi alla magia che ti poni delle domande, quelle di sopra, quelle di Molyneux. Per restare nella cerchia, a dirla tutta ristretta, delle produzioni del designer inglese, cito l’arrivo alla Gilda di Fable e la prima stretta di mano in Fable III: episodi che scaldano, quantomeno ci provano, il cuore di chi gioca al pari di un paesaggio del comunque “freddo” Halo 4 o, aprendo il discorso alla concorrenza, delle distese sabbiose di Journey (protagonista della nostra copertina), delle riflessioni filosofiche di Braid e della colonna sonora di Bastion. E per fortuna di esempi così potrei farne tanti, specie nel mondo del videogioco indie.

Indie. E’ forse questa la parola chiave? Indie. Il buon Peter ha cercato di farci capire che qualche generazione fa ci si auspicava un’evoluzione dei giochi e non del mercato. Un’evoluzione che avrebbe dovuto riguardare la struttura, la qualità e l’intensità dei prodotti, non la loro profittabilità. Che è proprio quanto accaduto negli ultimi tempi, a caccia di quel pubblico di massa – e qui ci riallacciamo all’input della discussione – che è capace di assurgerti a dio dell’Olimpo per poi abbandonarti tra il fieno e la polvere della stalla. Ne sa qualcosa l’uomo che su Kinect ha scommesso tanto, c’ha messo la faccia e se n’è uscito di scena da sconfitto.

L’industria dei videogiochi ha fallito, allora? Dipende “da che punto guardi il mondo”, direbbe il cantante. Se guardiamo il mercato dei videogiochi con l’occhio dei grandi publisher, probabilmente sì, il sogno degli anni ’80 è andato a farsi benedire in nome del dio denaro (e dei giocatori che spesso e volentieri sono pigri). Se lo osserviamo invece con gli occhi degli sviluppatori indipendenti, beh, questo sogno è ancora vivo e vegeto su servizi come Steam, PlayStation Network e Xbox Live.

Ma non solo: vi dico anche che questi due mondi sono come politica e antipolitica. Forse potrebbero anche incontrarsi, un giorno (spero) lontano, ma non dovranno farlo mai. Perché gli indie stanno fuori dall’industria ma, magari senza rendersene conto, la stanno salvando.

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