È ufficiale: dal Natale appena trascorso sono anch’io, come Paolo, un utente PlayStation 3. Questo implica almeno un paio di cose: che non potrò più prenderlo in giro (motivo per cui ho resistito così tanto prima di acquistare la console Sony); e che – seriamente! – non avrei potuto farmi regalo migliore, almeno quest’anno, per i motivi che conoscete già se avete letto il nostro Our Way pre-natalizio. Nello stesso editoriale palesavo la mia voglia di giocare Uncharted. Ho acquistato anche quello, ma ne parliamo tra un attimo.
Prima di tutto dovrei spiegarvi, tra le altre cose, per quale motivo voglio parlare di Uncharted proprio qui, sulle pagine di XboxWay. Il motivo è semplice: mi andava di farlo. Ma non è l’unico. Giocando Uncharted non ho potuto fare a meno di elaborare una serie di riflessioni sullo stato dei videogiochi, ovvero “dove siamo arrivati” dopo 20 anni e più di evoluzione nel settore dell’intrattenimento elettronico. Le domande che mi sono posto: siamo al punto di arrivo o a quello di partenza? La super-grafica, il fotorealismo e l’alta definizione sono ciò che davvero vogliamo? O sono piuttosto dei “bisogni” che l’industria stessa ci ha imposto negli anni? Insomma, sono necessari, o addirittura indispensabili, per un videogioco di qualità?
Giocando la trilogia di Uncharted a ritroso, ovvero iniziando dal terzo episodio (sì, ho voluto “farlo strano”), qualche risposta sono riuscito a darmela – ma ci sarei riuscito anche se fossi partito da Uncharted 1. Comunque. La serie creata da Naughty Dog, non ci sono dubbi, attrae principalmente per la sua tecnica. Dalla grafica e dal visual style da film Pixar, alle animazioni di Nathan – il protagonista -, fluide e realistiche. Vi sembrerà strano, ma niente di tutto ciò rappresenta, in realtà, la vera forza del prodotto. L’alta definizione, i dettagli e la pulizia grafica sono senza dubbio una parte importante dell’insieme, ma le fondamenta sono rappresentate dalle scelte registiche, dalla capacità di Naughty Dog di mettere nelle mani del videogiocatore qualcosa che altri avrebbero semplicemente utilizzato come filler tra una sezione giocata e l’altra. In Uncharted 3 questo aspetto è ancor più evidente che negli episodi precedenti: il giocatore, pad alla mano, è trasportato avanti per inerzia dagli eventi che si susseguono davanti ai suoi occhi. Ci sono inseguimenti, ad esempio, degni del miglior Indiana Jones, ma sono controllati (almeno in parte) dal giocatore-spettatore. Un aspetto che ha fatto storcere il naso a molti, ma che in realtà fa sì che la terza avventura di Nathan Drake sia un film interattivo senza tuttavia aver corso il rischio di allontanarsi dalle caratteristiche del videogioco puro. Qualcosa di veramente unico nel suo genere.
Non stiamo parlando di grafica quanto di ritmi, narrazione e, udite udite, gameplay: il cuore di ogni videogioco che si rispetti. Non esiste videogioco senza gameplay. In Uncharted, questo si è messo completamente al servizio della narrazione, e non il contrario. E allora la risposta alle mie domande, specie all’ultima della serie, è molto semplice: super-grafica, fotorealismo e alta definizione sono importanti, sì, ma non indispensabili per un videogioco di qualità. Il segreto, nonostante le console con cui giochiamo siano sempre più potenti ed evolute, resta comunque il gameplay. Ha ragione Shigeru Miyamoto (il creatore di Zelda e Mario) quando si dichiara non interessato al fotorealismo: la potenza che abbiamo oggi a disposizione – ma soprattutto quella che avremo domani – può, e forse dovrebbe, essere sfruttata in modo diverso. Uncharted, nonostante il suo aspetto da belloccio del liceo, ha un cuore – il gameplay – senza il quale non sarebbe il capolavoro che è.
Ho preso Uncharted come esempio perché qui su XboxWay non ci poniamo limiti, lo sapete: scriviamo sempre in base alle nostre esperienze personali. Ma lo stesso discorso potremmo estenderlo a giochi come Gears of War (molto più simile ad Uncharted - o forse è il contrario – di quanto non sembri): grafica sbalorditiva, ok, ma è “colpa” del gameplay se è stato uno dei giochi più influenti di questa generazione, tanto da contagiare anche le meccaniche sparatutto della serie Naughty Dog.
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Enrico Santi