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La cultura della morte ha invaso i videogiochi?

di • 15 luglio 2011 • Videogames, inc.Commenti (0)2881

Un videogioco che propaganda la cultura della morte” e che per questo “non va venduto ai minori“. L’Onorevole Binetti, UDC, a proposito del discutibile – per la sua qualità, non tanto per le tematiche che tratta – Euthanasia, un comunque interessante progetto indipendente sfociato nell’FPS qui scaricabile per PC. Il gioco in se mi interessa relativamente poco; quel che è davvero in ballo è la facoltà di un videogioco di “propagandare la cultura della morte”. L’Onorevole Binetti sarà stata bluffata dal titolo dello sparatutto, spero, perché altrimenti è da condannare un genere, quello degli shooter appunto, e un modo di vedere il divertimento videoludico che, sempre meno spesso, coincide con l’accoppare il malcapitato di turno o salvarsi dalla schermata del game over.

Discutere i contenuti di un’industria come quella del videogioco, in forte crescita culturale ed economica, corrisponderebbe a mozzarle le gambe. A impedirle di realizzare il suo potenziale che nulla ha da invidiare a quello degli altri media artistici, cinema in primis. E se proprio quest’ultimo è patentato per trattare tematiche come il suicidio e la morte, pur non dovendo confrontarsi col game over tipico dei videogiochi, non resta che chiedersi perché tanto stupore di fronte a produzioni come Euthanasia, palesemente rivolte a un pubblico di over 18.

Nei videogiochi basati sulla guerra, poi, vince il last man standing, l’ultimo sopravvissuto, mentre se cadi giù per un burrone, nei platform, stai ben certo che vedrai una schermata nera e una decina di caratteri in rosso. “Hai perso”, “È finita”, “Sei morto”. “Sei morto”. Quanto l’Onorevole e tanti come lei ignorano è che nel mondo dei videogiochi mai nulla è come sembra: ti colpiscono alla testa? Hai un’altra vita e, come piace agli amanti del realismo, un checkpoint o un pacco di medicinali che ti rimettono in carreggiata; tecnicamente sei morto, ma nella pratica non lo sei affatto, non lo sei mai stato. Il gioco è lì che ti aspetta, e che magari ti propone un’altra sfida a base di difficoltà impossibili.

Se dunque la cosiddetta “cultura della morte” fosse una questione di forma, avremmo la necessità di polverizzare le nostre librerie videoludiche, cancellare la memoria degli intenditori e legiferare in merito – me lo vedo, l’articolo 1 del decreto anti-violenza elettronica: “il giocatore non dovrà mai essere in grado di mettere a rischio la propria incolumità”. Bella storia.

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