Child of Eden: Sinestesia

di • 28 giugno 2011 • RecensioneCommenti (1)1617

Tetsuya Mizuguchi è uno di quei (pochi) game designer che sono riusciti a diventare un’icona, a crearsi un’identità all’interno di un’industria così caotica come quella dei videogiochi, alla faccia di chi dice che l’autorialità è morta. Quando l’anno scorso ha aperto la conferenza Ubisoft all’E3 indossando un paio di guanti bianchi e dirigendo un’orchestra di luci e colori, tutti sono rimasti a guardarlo, immobili, quasi increduli. Stava semplicemente giocando a Child of Eden, e… no, non è necessario indossare i guanti per giocarci. Basta un sensore Kinect, ma anche il pad, con qualche (ovvia) differenza, va benissimo.

Child of Eden, proprio come Rez, di cui è il successore spirituale, rimette in discussione i canoni di classificazione dei generi videoludici. Cos’è, è uno sparatutto su binari? Certamente sì, ma sarebbe riduttivo definirlo tale. Chiamiamolo pure un’esperienza sensoriale, non abbiamone timore. Proprio questo è il tratto distintivo che lo pone al limite tra videogioco e videogioco-per-pochi. “Fanculo il lettore medio”, diceva una volta qualcuno. Beh, se non sei pronto a vivere Child of Eden come un’esperienza artistica, stanne alla larga: finiresti per odiarlo.

Tutto in Child of Eden converge verso un’unico obiettivo, dalle immagini alla musica, dalla storia (appena abbozzata) ai controlli (col pad o senza): il coinvolgimento dell’utente in un mondo ultra-sensoriale. Un obiettivo raggiunto dopo pochi minuti; il primo dei cinque livelli di cui il gioco è composto (ognuno gode di un’ambientazione diversa) sarà già in grado di dirvi tutto, o quasi. Ogni stage è un “archivio” di Eden, un’evoluzione interspaziale di internet dove tutte le conoscenze umane sono conservate e tra queste ci sono anche i ricordi di una ragazza, Lumi, il primo essere umano nato al di fuori dei confini terrestri. Il sistema è stato infettato da un virus e il vostro compito sarà ripulirlo.

Con il pad, il compito sarà (un po’) più semplice, il mirino è più preciso grazie all’uso della leva analogica, nonostante i beats della colonna sonora facciano tremare il controller. Molti hanno detto che il vero Child of Eden è quello con Kinect; in realtà, entrambe le esperienze sono da provare, ognuna ha qualcosa di diverso da dire, e ditemi se questo non è un buon motivo per finirlo due volte. Child of Eden sarà anche breve (è possibile finirlo in un’ora scarsa), ma gli extra non mancano, ci sono due livelli di difficoltà, non ci sono i check-points (decidete voi se è una cosa buona o meno) e, aspetto più importante, potreste decidere di riprenderlo di tanto in tanto, giusto per immergervi per qualche minuto nel suo mondo. Non è un gioco ma un’esperienza, come dicevo. Eppure, non è orfano di quell’anima da videogioco puro, vecchio stile, di quell’impostazione tipica dei coin-op, quella che a ogni fallimento ti spinge a riprovare e ancora riprovare, fino al successo.

Kinect è ovviamente la novità, quella che riesce a coinvolgere non solo i sensi, ma anche il corpo, mettendolo in movimento davanti a un monitor che diventerà una sorta di finestra su un mondo che è talmente irreale da sembrare vero. Ho visto due pianeti attratti l’uno dall’altro farsi la guerra a ritmo di musica per poi trasformarsi nelle sagome di due persone in corsa, fiori colorati sbocciare da un lago dall’acqua limpida come uno specchio, e io ero parte di tutto ciò. Il mirino era la mia protesi per entrare in contatto con quel mondo, in (e con) tutti sensi. In una parola: sinestesia.

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