Il menù è semplice, in bianco e nero, ma che atmosfera riesce a creare quell’uomo in lontananza che si avvicina, barcollando. Vaga senza meta. La sua sagoma, scura come la notte, è delineata dai fari accecanti di una macchina ferma dietro di lui. È proprio l’atmosfera adatta per un viaggio indietro nel tempo, da Jessica Alba a Marilyn Monroe, dai videogiochi al cinema noir. In fin dei conti, dalla Los Angeles del 2011 a quella post-bellica del 1947, il passo è breve. Aggiungi il suffisso “Land” alla scritta “Hollywood” – proprio quella, tra quelle montagne – e il gioco è fatto. Sì, certo, fosse stato così semplice, L.A. Noire sarebbe uscito qualche anno fa. E invece ci sono voluti sei anni, e 32 videocamere (tante quante sono quelle necessarie per la neonata tecnologia MotionScan), perché l’ultima creazione firmata Rockstar e Team Bondi prendesse vita.
L’anno scorso ci eravamo ritrovati protagonisti di un western con Red Dead Redemption. Quest’anno, invece, tocca al noir. Fateci caso: sembra quasi che Sam Houser voglia passare in rassegna, uno dopo l’altro, i generi cinematografici più famosi; quelli storici, per così dire. E chissà a quale toccherà, la prossima volta. La cosa ovviamente mi piace, e non poco, soprattutto perché il mezzo utilizzato è il videogioco. In L.A. Noire, antico e moderno si incontrano e il contrasto è subito evidente, come quello tra il bianco e il nero: l’alta definizione di Xbox 360 e PlayStation 3 si contrappone a una scelta cromatica volutamente retrò. Niente paura, niente paura… il gioco è a colori, soltanto un po’ più saturi di quanto ci si aspetterebbe per un’ambientazione realistica come quella rappresentata. La chicca? Se volete, c’è un’apposita modalità con la quale trasformare il gioco in una vera e propria pellicola d’annata. Black and white, baby.
Così come il moderno e l’antico, e forse sulla scia di questo stesso “incontro”, in L.A. Noire entrano in contatto anche tecnologia all’avanguardia, recitazione e, chiaramente, narrazione. Insomma, qui si fa sul serio. Il già citato MotionScan rende le espressioni dei personaggi del tutto simili a quelle che potreste vedere in un film con persone in carne e ossa, semplicemente perché in fondo, quelli sullo schermo, sono degli attori veri (molti, incluso il protagonista, direttamente dal cast dell’apprezzata serie televisiva Mad Men). Inutile girarci intorno: la vera rivoluzione è tutta qui. La narrazione entra in gioco di conseguenza. E anche qui non si scherza: Los Angeles e i suoi omicidi a suon di jazz, droga e belle donne (risolverete addirittura il famoso caso della Dalia Nera, rimasto irrisolto nel mondo reale) sono usati come sfondo per un tema – tanto scomodo quanto affascinante – come quello degli strascichi psicologici della Seconda Guerra Mondiale sui soldati rientrati in patria. Tematiche adulte, coraggiose. Che qui sono narrate come raramente, molto raramente, si è riuscito a fare in un videogioco: i flashback sul protagonista danno vita a un piano narrativo parallelo che si intreccia a quello principale e con cui finirà per collidere. Gli “episodi”, i casi che dovrete risolvere, creano ogni volta la giusta tensione; la curiosità, mai così indispensabile, per andare avanti.
Ma sappiatelo: L.A. Noire non è GTA. L’impostazione seriosa del gioco, meno sbarazzina e più “inquadrata”, riflette appieno le tematiche trattate dalla sua trama. Tanto che, una volta scesi in strada, non potrete fare quel che volete. No. In questa particolare alternanza tra guardie e ladri inscenata da Rockstar, stavolta siamo dalla parte degli sbirri. Niente pedoni sotto le ruote, né sparatorie gratuite: la pisolta? Solo quando serve. Siamo nel LAPD e vestiamo i panni di Cole Phelps. È un reduce di guerra, aveva militato nel corpo dei Marines durante la sanguinosa battaglia di Okinawa, in Giappone. Praticamente un eroe, o almeno così dicono. Da semplice agente di pattuglia, Phelps si farà strada fino a raggiungere la vetta, diventando detective prima nella squadra omicidi, poi nella narcotici, passando per il traffico e gli incendi dolosi. Insomma, le scene del crimine, quale che sia la loro natura, saranno il vostro pane quotidiano: taccuino alla mano, prenderete appunti sugli indizi raccolti e alla fine proverete a mettere insieme i pezzi del puzzle, interrogatorio dopo interrogatorio, inseguimento dopo inseguimento, sparatoria dopo sparatoria. Il taglio cinematografico si vede anche nelle fasi d’azione, ricordano davvero quelle dei film di qualche anno fa. Gli inseguimenti a piedi sono “guidati”, quella di controllare il personaggio è un’illusione, salti gli ostacoli e quasi non te ne rendi conto: sono le animazioni a fare il lavoro sporco. Belle, per fortuna. Fluide. L’illusione funziona.
Ma sono le indagini il cuore del gameplay. Il sistema studiato da Team Bondi è semplice ed efficace: siete liberi di farlo, ma, ve lo assicuro, non andrete via finché non sentirete il “suono magico” che comunica l’assenza di altri indizi sulla scena. Riuscirete a trovarli tutti molto facilmente, però, se deciderete di lasciare attivo il segnale che farà tremare il pad non appena vi avvicinerete a uno di essi. A voi la scelta. Cadaveri, anelli, mozziconi di sigarette. Tutto può essere utile. O forse no. Ed è qui che gli interrogatori acquisiscono importanza, il peso che farà pendere la narrazione in un verso o nell’altro. Valuti una risposta in modo sbagliato (tre le possibilità: Verità, Dubbio, Menzogna) e le vicende rischiano di prendere una piega inattesa. La confessione è l’obiettivo da perseguire, ma non è così facile da raggiungere. L’errore è dietro l’angolo e incriminare qualcuno sulla base di prove scricchiolanti potrebbe avere ripercussioni sulla tua reputazione.
Più che un viaggio nella Los Angeles del ’47, ricostruita nei dettagli ma non troppo (il centro è quello che gode di maggiore cura, ci sono anche gli edifici più famosi), L.A. Noire è un’indagine continua, non solo nelle crime-scenes, ma anche nella psicologia dei personaggi, di Cole Phelps in particolare. Personaggio a tutto tondo, ambizioso, di sani principi, misterioso: gli scheletri nell’armadio, tipici dei protagonisti del noir, ci sono tutti e non tarderanno a rivelarsi. Ecco la forza di Rockstar Games, ecco la forza della sua ultima creazione: la capacità di andare oltre la superficie, di spingersi là dove nessuno osa. Di fare del videogioco un medium maturo.
Poco importa se la libertà non è quella di un Grand Theft Auto. Se l’orizzonte visivo non è vasto come quello di Red Dead Redemption. O se durante gli inseguimenti più sfrenati si assiste a qualche scatto di troppo. Se voglio spezzare la monotonia ho le missioni secondarie; oppure, così come chiuderei un libro che, seppur appassionante, mi ha temporaneamente stancato, metto il segnalibro digitale e spengo la console.
Vedete, alcuni giochi non hanno ambizioni artistiche. Giochi, stai lì delle ore, ti diverti, ma è davvero arte? In quei casi, se sono arte o meno è una questione soggettiva, spesso lo diventano solo a contatto con l’utente, e solo per lui, nel cerchio della sua esperienza. L.A. Noire, cari lettori, è un’altra storia. Racconta tematiche importanti, e lo fa con classe; mette in scena attori di prim’ordine e tu li vedi lì, che recitano… recitano, per davvero; suona poche note in sottofondo e tanto basta per creare la giusta atmosfera. Racconta, recita, suona. Un videogioco che fa tutto questo nasce come arte. È arte. Ce l’ha scritto nel DNA. E te ne accorgi subito: osservi la schermata iniziale e il tuo sguardo si perde, mentre ti rendi conto che quella, a Los Angeles, sarà l’ennesima notte noir.
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