Le ambigue manovre commerciali di Tecmo, Square Enix e Koei alla ricerca del primato economico e videoludico: conseguenza delle ideologie occidentali?
di Paolo Sirio, con la collaborazione di Sergio Giannone.
Una sola parola sembra aver conquistato il cuore (e le menti, oseremmo dire) dei developers, ossia di coloro che i giochi li fanno: competitività. Uno scopo che da soli difficilmente si riesce a raggiungere. Al giorno d’oggi assistiamo a una corsa alla fusione, perseguimento della vecchia logica secondo cui "l’unione fa la forza".
Il concetto, come avrete potuto notare, è di provenienza tipicamente occidentale: un’azienda sorge non per amore del videogioco o dell’arte (termine usato esclusivamente in territorio nipponico). Non solo, almeno. Nasce per ottenere profitti. Perciò assistiamo, in particolare nella nostra generazione, caratterizzata da middleware e videogame simili tra loro per struttura e grafica, all’arrivo sul mercato di prodotti scadenti che riscuotono grande successo tra gli utenti finali. Una logica, questa, che sta purtroppo prendendo piede anche nella terra del Sol Levante, da sempre all’avanguardia per creatività e realizzazione tecnica.
Non ci sorprendano, dunque, i proclami di questi giorni fatti da Tecmo, a caccia di partner per un’insana fusione: Square Enix la sua proposta l’ha fatta, ha provato a diventare l’Electronic Arts giapponese, ma il tentativo è miseramente fallito. Purtroppo o per fortuna, non spetta a noi dirlo.
Sta di fatto che la software house di Ninja Gaiden e Dead or Alive, in seguito al tumultuoso abbandono di Tomonobu Itagaki, necessita di una pesante ristrutturazione per evitare il fallimento. Altro dato di fatto è tuttavia rappresentato dalla volontà tipicamente asiatica di restare indipendenti o, almeno, sullo stesso livello degli acquirenti. Termine errato, nella fattispecie. Trattasi di partner.
Proprio questo vocabolo deve aver usato Koei, ormai quasi certa dell’unione con Tecmo, al contrario dei colleghi di Square Enix: una partnership a lungo termine, un po’ come quella di Sony ed Ericsson nella telefonia, che potesse mettere sullo stesso piano entrambe le aziende. Aziende che hanno attualmente dei portfolio "compatibili", al contrario di quanto dichiarato in occasione dell’offensiva targata Final Fantasy.
Sebbene Square, già proveniente da una proficua fusione con Enix nel 2003, avesse parlato di una scalata prettamente "amichevole", Tecmo non se l’è sentita di gettar via il lavoro di migliaia di uomini destinati a finire in pasto al primo squalo di turno. Il medesimo ragionamento, tuttavia, non è stato effettuato da Vivendi, scontratasi di recente con le ampie fauci del colosso Activision. Altro sintomo di un concetto, quello di "mercato", che investe sempre di più il nostro limpido mondo. Una software house, talvolta anche publisher dei suoi prodotti, che si vende a un gigante dell’imprenditoria alla ricerca del primato? Mera svalutazione.
Ma qualcosa deve pur aver spinto l’arcinoto developer/publisher Vivendi alla fusione "amichevole" con uno dei suoi maggiori rivali. E non è neppure difficile intendere di cosa si tratti. Il fantasma del fallimento, nei confronti di rivali troppo ricchi e agguerriti, è il primo facile movente. "Se non puoi batterli, diventa loro alleato", ricorda un celebre proverbio.
Ed è questa la mentalità assunta dai piccoli sviluppatori. Una mentalità che non ambisce all’indipendenza concettuale e produttiva, ma che punta al profitto e alla disperata possibilità di continuare ad esistere.
Un esempio facile? Jonathan Blow, autore di Braid che, per quanto in possesso di una genialità d’altri tempi, è dovuto sottostare alle norme dettate da Microsoft, unico editore a credere nelle sue potenzialità. Risultato? Costo elevatissimo per un Live Arcade (1200 Microsoft Points) e qualche taglio qui e lì nel gioco. Sacrifici che in quest’epoca sono ben poca cosa.
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